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INTRODUZIONE

Se c’è un fatto determinante e, per certi versi, qualificante nella vita di Girolamo, è indubbiamente quello riferitoci dallo stesso dalmata, e che va sotto il nome di «sogno ciceroniano». Ad accrescere la fama strepitosa di tale confessione autobiografica, dovette altresì contribuire la portata non comune del contesto, e precisamente della celebre lettera XXII alla vergine Eustochio: una specie di «magna charta» di tutta la spiritualità geronimiana. Non è qui certamente il caso di risollevare — e tanto meno di voler scandagliare — la vexata quaestio della realtà oggettiva, o meno, della suddetta manifestazione onirica (si potrebbe osservare — ma solo in chiave di celia —, che se anche la cosa non è vera, è certamente ben trovata!). Né ci alletta l’idea — per altro inattuabile — di cercare tra i labirinti della scienza psicanalitica una certa qual chiave interpretativa del tipico dramma, sotteso alla magistrale rievocazione geronimiana. Assai più modestamente, al di fuori di qualsiasi elucubrazione di carattere storico-filologico, più o meno all’insegna dell’inconscio, ci sembra di poter cogliere in quella svolta drammatica, onirica o no, dello spirito geronimiano, una sorta di spartiacque simbolico di tutta la parabola esistenziale del dalmata.